Sergio Bevilacqua legge “hakuna matata” di Cesare Bellentani

Così ridendo, discutendo, e imparando a conoscersi, fra un sobbalzo e l’altro in una strada non sempre asfaltata erano arrivati a Malindi, alle undici della mattina. Fortunatamente la pattuglia si era assottigliata: le due coppie di lombardi erano infatti scese al White Elephant, mentre con Sandra erano restati, oltre a Franco e al professore di cui già sapeva, i due modenesi un po’ rustici.
Le sembrava un sogno. Già si sentiva immersa in questa aria africana, in uno spirito gioioso che accantonava, anche se per poco tempo, tutti i problemi.
Entrarono nel villaggio: la vegetazione era lussureggiante, i bungalow esotici, con il loro aspetto di capanna primitiva. Lo specchio azzurro della piscina rendeva reali i sogni dei viaggiatori, stanchi e accaldati.
Simpatici negretti, piccoli e ricciuti, vestiti di una livrea rossa e marrone, erano indaffaratissimi a scaricare i bagagli; una signora bianca dalla corporatura robusta si premurava di far sentire i nuovi ospiti a proprio agio, offrendo un cocktail di benvenuto a base di succhi di frutta tropicale. Un attimo solo per registrare i nomi e poi la chiave del paradiso.
Con un profondo senso di sollievo Sandra prese visione del suo bungalow, con il comodo letto con il baldacchino – zanzariera, la veranda, lo spazioso bagno, il frigo bar. Controllò con cura tutto, forse con una inconsapevole prevenzione verso il continente nero. Ma tutto sembrava in un ordine perfetto. Il bagno era abbastanza spartano, ma la larghezza degli spazi faceva dimenticare in fretta la mancanza di uno stile molto ricercato. Gli ambienti erano puliti, e questo era già di per sé un primo motivo di soddisfazione.
Ora desiderava soltanto spogliarsi, fare una doccia e tuffarsi nella piscina. Nondimeno accettò di buon grado di ricevere la prima lezione di swahili dai due madrelingua che stavano riassettando la camera.
“Jambo – ciao”.
“Abari gani – how are you?”.
“Mzuri sana – I’m fine”.
Sandra, divertita, ripeté la filastrocca due o tre volte; poi, una volta appresa, salutava tutti con questo Jambo – jambo, rispondendo all’Abari gani con un soddisfattissimo Mzuri sana.
Finalmente anche la lezione fu terminata e la camera riassettata. Chiuse la porta, si spogliò, gettò i vestiti come capitava sul secondo letto; infine si abbandonò sotto il getto rinfrescante della doccia.
Dopo essersi asciugata e aver raccolto le creme, il walkman e un paio di riviste uscì per dirigersi alla piscina.
L’aria era ferma e silenziosa, il cielo azzurro chiaro, con qualche striatura bianca verso il continente; le palme erano immobili. La brezza, leggerissima, rendeva comunque tollerabile l’ora del solleone.
“Jambo”.
“Jambo jambo”.
“Abari gani?”
“Mzuri sana”.
Sandra si sentì già padrona della lingua. Il negretto che le era venuto incontro sistemandole con cura lettino e materassino andò oltre.
“Jua kali”.
“I don’t understand”.
Lui indicò il sole, fece segno con una mano portata alla fronte, come per tergere il sudore, e, boccheggiando un poco, di avere caldo. Le fece così capire che con questa espressione indicava il sole caldo. La condizione ideale per quel succo di frutta con macedonia che il ragazzo le aveva proposto.