New York, Empire State Building, 86° piano, Appartamenti privati di Sylvia Sylvester. Sera del 1 settembre 2202.
Sylvia distolse lo sguardo dal “mezzo” panorama del 66° piano dell’Empire. Era rimasta sola col crepuscolo che incedeva e lasciò la Sala del Governo. I suoi tacchi picchiettavano piano sul pavimento di marmo lustrato a specchio. Come facendo spallucce a qualcosa, camminava con entrambe le mani infilate nelle tasche della gonna corta. La testa un po’ reclinata in avanti e la frangia nera le nascondevano il volto. Sotto, lo sguardo brillava di vittoria per il consenso ottenuto dal Gotha e i denti bianchi mordevano il labbro inferiore rosso e carnoso, in un atteggiamento tutto suo.
Sfiorò con l’unghia lucida il pulsante dell’ascensore, che arrivò prestissimo. Salì, appoggiò la schiena alla parete in specchio e incrociò le gambe nude in un atteggiamento di relax. Premette 86, il più alto piano abitato dei centodue dell’Empire State Building, vecchio gigante dalla cui cima si godevano i panorami di New York più affascinanti e famosi. Un leggero senso di decollo e, in brevissimo, le porte s’aprirono silenziose su un monumentale ingresso: bianco e opaco, appariva come il concavo di una sfera, levigata e semi trasparente su cui il tramonto rossastro creava effetti d’ombreggiatura, animandolo in modo teatrale.
Di fronte a lei, a circa cinque metri, c’era l’ingresso dello studio e dei suoi appartamenti privati, socchiuso dal grande portale rinascimentale. A sinistra, opportunamente distanziata di quindici metri per donarle il giusto palcoscenico, aveva trovato il suo perfetto habitat la “Nike di Samotracia”. L’antica statua della vittoria alata era arrivata in cima all’Empire dopo aver stazionato per secoli incatenata al suolo del Museo del Louvre. Ora, le ali grandiose e il corpo vigoroso s’erano liberati da quella prigione ed erano finalmente giunti lì dove, grazie all’effetto architettonico, ogni nuvola di passaggio sembrava farla volare di nuovo.
Uscendo dall’ascensore, Sylvia Sylvester si guardò le Chanel ai piedi ed espirò profondamente, lasciando il clima del lavoro. S’avvicinò al portale e si tolse una scarpa; poi, varcandolo, con un saltello si tolse anche l’altra e le trattenne nella mano, reggendole per i cinturini posteriori.
Abbandonò l’atmosfera ovattata dell’atrio ed entrò nel silenzio del suo studio. Appoggiando i piedi nudi sul tiepido pavimento di lapislazzulo, semi coperto dai tappeti antichi, si diresse verso la porta della sua abitazione. Nella penombra, prevaleva il profumo dei pregiati dipinti a olio appesi alle pareti.
In fondo alla stanza, su un’ampia sopraelevazione, s’intravvedeva la sua postazione di lavoro: quasi trecento anni prima, era appartenuta al famoso industriale dell’auto Henry Ford, che l’utilizzava nei suoi uffici di Highland Park nel Michigan. Dietro, le faceva da sfondo un grande cristallo, arrotondato come l’abside d’una cappella, attraverso cui si potevano ammirare la baia dell’Hudson, i tetti dei grattacieli di Manhattan e tanto, tanto cielo.