Sergio Bevilacqua legge “Se baci la rivoluzione” di Sonia Serravalli

Inverno 2011

“Pane, libertà, giustizia sociale…”; “Scegli il popolo o il regime”;”Yaskut yaskut el Rais!”; “El shab yurid eskat el nezam”: questi alcuni degli slogan che, dalle folle, martellano le città e tutti i canali Tv, tranne quelli di Stato che ancora si sforzano di mandare in onda programmi stupidi o riprese vecchie.
Poi, “hureya”, libertà, una delle parole più belle in qualsiasi lingua la si pronunci. La urlano i bambini, la urlano le casalinghe, la urlano gli stessi poliziotti che si sono uniti alla gente e i primi militari che disertano. Una giornalista della Tv del regime, non più in grado di reggere la bugia, anziché recarsi al lavoro si aggrega alla folla , e così anche qualche ministro, che cede alle pressioni della trasparenza. Quello è un Paese nuovo, un Paese di cui non riconoscete le reazioni e un Paese in cui non eri mai stata, non così. Un Paese che, di conseguenza, non avevi mai lasciato e che abbandonare, dopo questo, sarebbe diverso da tutte le altre volte.
I prezzi di benzina, gas e latte sono già aumentati e i voli da gran parte degli Stati europei sono stati cancellati. Sai che, se non decidi subito, di lì a poco non ci sarà più possibilità di ritorno. La benzina è quasi esaurita.
Quell’aria di liberazione dopo decenni è una boccata di ossigeno che arriva in tutti gli anfratti della nazione come una benedizione.
E ancora voci, tante voci. Numerose come cavallette, le verità dei notiziari ufficiali si mescolano a quelle dei giornalini ufficiosi, dei blog, dei forum e delle persone presenti a un fatto, o in contatto con manifestanti, testimoni oculari, parenti e amici di amici nella capitale.
I tank dell’esercito recano sul lato scritte denigratorie verso il grande capo, offese al proprio Rais che fino a pochi giorni prima nessuno si sarebbe azzardato a proferire. Restando tutti uniti, dire no sembra ogni giorno più facile. Il muro della paura è stato sfondato. Lo si sente nell’aria, da un momento all’altro, è come una cortina che si solleva. Una sorta di decisione pubblica: kifeya, halàs, basta.
Nel porto si moltiplicano le feste private in un coacervo di leggerezza. Si strutturano su una logica molto semplice: che vada bene o che vada male, tanto vale festeggiare. Sembra la prova tangibile che la felicità è una scelta, ma forse si è davvero felici solo sul bordo della disperazione. E’ lì che si capisce che non c’è assolutamente nulla di cui disperarsi, perché nella contabilità di questo universo non c’è nulla che si possa perdere.
Adesso, anche gli hotel stranieri espongono tutti la stessa bandiera.